Una coincidenza felice ci fa accostare le suggestioni e gli impulsi di quel grande evento ecclesiale che fu il concilio Vaticano ii con l’anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini, una delle figure più importanti della Chiesa italiana (e non solo). Sessant’anni fa si apriva il concilio. E dieci anni fa moriva Martini, la cui eredità biblica, pastorale e spirituale ha generato sogni e visioni nel cuore di molti credenti e che rimane viva ancora oggi.
L’occasione di tale coincidenza ci offre lo stimolo per una riflessione che può apparire “scomoda”, ma che risulta necessaria. Si tratta di situarsi in un luogo di frontiera, laddove gli stimoli ricevuti dalla ricchezza dell’assise conciliare, invece che rinchiuderci nella tranquillità di un traguardo raggiunto, ci spingono a nuove domande e incessanti ricerche. Si tratta, cioè, di lasciarsi portare da quel dinamismo permanente della grazia che tante volte Papa Francesco ricorda e raccomanda al nostro atteggiamento ecclesiale e che — come afferma in Evangelii gaudium — può essere bloccato da strutture ecclesiali immobili e caduche, nonché da atteggiamenti ispirati al grigiore pragmatico di chi manda avanti le cose di sempre senza passione, senza speranza e con una tristezza dolciastra.
Ci chiediamo, dunque: ci basta quanto il concilio Vaticano II ha detto, scritto e messo in azione oppure è arrivato il momento per auspicare un concilio Vaticano iii? Questo interrogativo ha anzitutto bisogno di essere liberato dalla contrapposizione ideologica che, non di rado, anima il dibattito talvolta polemico intorno al concilio. In realtà, la domanda è profondamente teologica e pastorale ed esige perciò una risposta che vada oltre l’emotività.