Quando avete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentite tristi, vi hanno offeso o qualcosa non vi è riuscito, quando la tempesta si scatena nel vostro intimo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete.
Era il 14 agosto 1922 e lo scienziato, filosofo e teologo Pavel Florenskij dal gulag terribile in cui era stato internato dal potere sovietico scrive ai suoi figli le parole che abbiamo citato. È un appello alla speranza che travalica ogni desolazione e accende una fiamma nel cuore raggelato dalla sofferenza. L’invito ad aver fiducia, nonostante tutto, è affidato a un simbolo, l’azzurro del cielo trapuntato di stelle in una notte estiva. Quegli astri, agli occhi di chi li contempla con occhio puro, sono gli eterni compagni dell’umanità e sono messaggeri di un senso superiore.
Certo, sulla superficie della terra si stende il buio campo di concentramento, si levano le misere baracche dalle quali esala il respiro affannoso degli internati. Ma sopra questo orizzonte terreno, che l’umanità si crea con la sua libertà perversa e degenerata, si dispiega il manto dell’infinito con la sua bellezza e le sue meraviglie. «Intrattenersi da soli col cielo» può diventare un dialogo che consola e che induce a lottare per la vita; è un colloquio non alienante ma liberante, non deprimente ma incoraggiante. Anche al vecchio e triste Abramo, patriarca biblico, Dio in quella notte disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» (Genesi 15,5).