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Editoriale del 16 agosto

Ferragosto il giorno dopo

L’odio in nome di Dio è il più feroce

A due giorni dal tentato omicidio di Salman Rushdie, non sappiamo ancora la matrice di questo terribile gesto, e non conosciamo le ragioni precise per cui l’attentatore, un giovane di origini libanesi, può aver deciso di salire sul palco per colpire chi stava per tenere una conferenza nell’ambito di un festival letterario. Sappiamo bene che su Salman pendeva una taglia di tre milioni di dollari, una fatwa emessa dall’autorità politico-religiosa dell’Iran, confermata e rinnovata da Khomeini. Perché?

Lo ricordiamo tutti: Salman, scrittore affermato, pubblica un romanzo che si rifà ad alcune testimonianze sulla vita di Maometto soggetta a tentazioni e a un patteggiamento con l’idolatria che smentisce il suo proclamato monoteismo. Il libro viene giudicato blasfemo nei confronti del Profeta e perciò bandito dall’Iran, e da Khomeini viene diramato ai musulmani l’invito a ucciderlo con la promessa di un compenso di tre milioni di dollari.

Da allora la vita di Salman – e ne dà prova l’attentato a due dei suoi traduttori e a un suo editore – è stata una vita da proteggere: Salman dopo una fuga dall’India si rifugia negli Usa dove pensa di essere abbastanza al sicuro, ma quest’ultimo evento mostra che la fatwa non è stata dimenticata. Un giovane si sente autorizzato a fare giustizia, a vendicare l’offesa al Profeta fino a compiere il gesto del tentato omicidio.


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